giovedì 24 dicembre 2015

O Noel where art thou?

Non è stato più Natale senza camino.
Mi mettevo lì davanti ed era così caldo. Il posto più caldo della stanza. Non era l'albero, nè i regali, nè mia nonna che cucinava e mia madre e mia zia che facevano avanti e indietro intente ad aiutarla, a fare il Natale. Era il camino. 
Dava subito alla casa una dimensione di festa, affetto e calore. Mi immaginavo la neve fuori e noi lì dentro che eravamo così felici e al caldo. Da fuori chi ci vedeva avrebbe pensato che eravamo proprio come una di quelle famiglie da film di Natale. Una famiglia in una casa dentro una di quelle palle con la neve che stanno bene sopra un camino, appunto.
Aspettavo il cenone a guardare il fuoco. Era magnetico. Ci buttavo dei pezzi di carta e guardavo il modo in cui bruciavano. Ognuno si accartocciava a modo suo. Ci buttavo anche le bucce di mandarino e arancia e l'odore si diffondeva nell'aria. Era ancora più Natale. Poi dopo mezzanotte finiva nel camino anche la carta dei regali e così il fuoco riprendeva vita. A volte il piacere di bruciare la carta nel camino era più bello del regalo stesso. I regali servivano per alimentare il fuoco e in qualche modo per far durare più a lungo quella fiamma natalizia di amore familiare.
Il camino faceva miracoli. Facevamo a meno dei termosifoni. Nonostante tutto quel cibo, si trovava sempre spazio nei nostri stomaci per una bruschetta. Spontaneamente veniva a tutti una gran voglia di pane bruscato, aglio olio e sale, con grande mortificazione per le tartine al salmone. Il camino riusciva nell'impresa di tenere mio zio lì con tutti noi dall'inizio fino alla fine della cena. Cosa che non succedeva mai in nessun'altra ricorrenza o pranzo domenicale, privi di camino acceso. Mio zio non veniva, o arrivava sempre quando avevamo iniziato a mangiare oppure scappava via mentre noi stavamo ancora col boccone in bocca. Una delle cose, tra le tante, che poi hanno contribuito alla rottura con mia zia, avvenuta, ovviamente, quando già il camino non c'era più! Si perché poi mio nonno lo ha tolto, per fare i lavori a casa, dopo la malattia di mia nonna. Con mia nonna malata, il camino assente e io che ormai non credevo più da anni alla storia che un vecchio canuto dal cuore immenso portasse regali a tutti i bambini del mondo in una sola notte, il Natale non è stato più lo stesso.
Non era più come stare in una boule de neige. Non c'erano più le lucine colorate, l'odore di arancia e l'atmosfera da miracolo nella trentaquattresima strada. Il camino riusciva nell'impresa di far sembrare la mia famiglia una vera famiglia, piena di amore, sostegno e unità. Così il Natale ho iniziato a festeggiarlo altrove.
Ma i migliori Natali che ricordo sono quelli in cui tenevo il culo al fuoco. Mia madre mi diceva «Attenta che ti bruci» e ogni tanto succedeva davvero. Qualche scintilla mi finiva addosso ma non mi importava dei buchi sui vestiti. Mi piaceva il calore del camino. Appena acceso, con tutti i tizzoni infuocati, era troppo caldo a starci di fronte e mi diventava il viso bollente, così mi mettevo di spalle e mi scaldavo il sedere in attesa che la legna si consumasse e che la fiamma fosse meno forte. «Non ti mettere davanti al camino che poi senti freddo quando vieni a tavola» diceva mia madre. E mia nonna, e mia zia. Le donne lo capivano meglio di me che prima ti bruci e poi, quando ti allontani, senti freddo. Perché il camino rimane lì e il calore non arriva dappertutto. E' circoscritto. Sei tu che ti avvicini alla fiamma e poi vorresti che quella bella sensazione ci fosse sempre. Vuoi qualcosa di impossibile.
Sentivo freddo a tavola. Il mio corpo era intriso di calore e si spostava dal posto più caldo al posto più freddo. Che non era un posto freddo davvero, era l'escursione termica tra l'estrema vicinanza al calore e l'allontanamento a farmi percepire un gelo irreale. Ma si sa che gli avvertimenti di chi ha esperienza spesso cadono nel vuoto. E anche se le cose belle possono far male, non importa. Io preferivo sentire freddo al non bruciare. Volevo sentire il fuoco e che fosse ovunque e mi seguisse, rimanesse con me. Ero giovane e credevo che la sensazione del camino potesse perdurare e sopravvivere alla scomparsa del camino stesso. E si, vorrei ancora un camino con il suo fuoco acceso, la notte di Natale. Ma non lo posso avere. Lo ho avuto e sono felice per i ricordi che mi ha lasciato, che non sono diventati brace ma sono ancora una fiamma viva. 
Stanotte avrò la mia famiglia e saremo di nuovo insieme dopo undici anni, a casa di mio nonno. Mi mancherà mia nonna affaccendata e perfino il mio scostante zio, che tocca i tizzoni e viene rimproverato da mio nonno. 
(Per mia nonna ci vorrebbero pagine e pagine. Era la persona più dolce del mondo e a volte un tantino sconclusionata. Una persona semplice, con poca cultura e quella purezza tipica della povera gente, che per ignoranza non riesce ad essere un po' cattiva mai, nemmeno per il suo bene. Più simile ad un cane da pastore, che andando via lascia delle pecore senza una guida coesa. Nessuno al mondo mi ha più abbracciato come lei. Abbracciava per istinto, come fanno gli animali. Un abbraccio umano ha sempre qualcosa dietro che lo muove. Amore, egoismo, senso di colpa, sollievo. Ma lei abbracciava come un orso fa con i suoi piccoli. Per istinto e basta. E io la amavo così, con i suoi limiti da quinta elementare e l'indifferenza di non volerne sapere di più).
Allo stesso modo mi mancherà il bellissimo Natale Altrove degli ultimi anni. 
Non avrò il camino e non avrò la vicinanza di molte persone care. Mi mancheranno e sentirò un po' freddo ma sarò felice comunque. Perché è Natale e a Natale è bello essere felici per quello che si ha. Per le famiglie imperfette e i ricordi che tengono al caldo il cuore, anche se il camino è lontano.

martedì 21 luglio 2015

Io, forse

Sto pensando di chiudere questo blog.
Di non scriverci più. Mi è sempre piaciuto scrivere qui. Si fanno le cose con più cura quando sai che qualcun altro le leggerà. Ma non scrivere più qui non significa non scrivere più.
Finché sarò migliore qui, tra le righe di questi post, non potrò esserlo nella realtà. Finché saranno quattro parole messe abbastanza bene una dopo l'altra a parlare al mio posto, non mi servirà poi a tanto avere due pliche vocali perfettamente funzionanti. Non sono brava a parlare. E di questo ne ho già abbondantemente parlato. Scusate il gioco di parole. Meglio dire che ne ho già abbondantemente scritto, che è effettivamente più corretto. 
Mi sto rendendo conto che non solo non sono capace a spiegarmi, a raccontare, a rispondere alle domande e a parlare di me, ma non sono nemmeno brava a capire che i miei comportamenti a volte tradiscono il mio pensiero. Per trentanni sono stata educata e mi sono autoeducata alla paura e all'insicurezza. Ora credo di essermene liberata e sono convinta che le mie domande siano solo semplici innocue domande ma poi vengono percepite in un'altra maniera. Io non voglio essere irrispettosa, non voglio controllare nessuno e mi fido! Però il sentimento che arriva all'altra parte è opposto. E questa è un'immensa frustrazione.  

C'è stato un periodo in cui non ho parlato. Una sorta di sciopero della fonazione. Non volevo dire niente ed è stato un bel periodo perché i dialoghi me li immaginavo. Lo sciopero della fonazione è durato poco. Ma è da lì che ho iniziato ad avere una grande fantasia. Tutti i bambini hanno un'enorme fantasia. Credo sia necessaria. Poi se ne va. Se ne va del tutto di solito, ma se ti serve allora rimane. E un po' così è stato. E' rimasta, per esserci quando serviva. Ho continuato ad immaginare i dialoghi per molti anni. Il più delle volte erano dialoghi molto belli e rassicuranti. Erano dialoghi e sogni e speranze. Mi immaginavo come sarebbero andate cose che poi non sarebbero mai effettivamente accadute. Una perdita di tempo, insomma, ma che mi faceva stare bene. Col tempo però è diventata deleteria. Mi immaginavo dialoghi che poi non facevo. Per esempio, immaginavo di spiegare una cosa e nella mia mente vedevo i gesti che avrei usato e cosa avrei detto e in che modo. E allo stesso modo immaginavo le risposte del mio interlocutore, cosa avrebbe controbbattuto e le sue eventuali domande. Quel dialogo si svolgeva veramente ed interamente nella mia mente. Il problema è che alla fine ero talmente stanca di tutto quel parlare che finivo per non comunicare assolutamente nulla. Nella mia mente l'episodio era ricco di particolari, di frasi e di cose dette ed io ero così naturale e spontanea e a mio agio.. ma quando poi c'era davvero la possibilità di realizzare quel dialogo, la comunicazione era striminzita, arida, priva di emotività. Un akarpos logos a tutti gli effetti. A volte, invece, i miei accadimenti onirici erano catastrofici. Così oltre a farmi stancare e farmi perdere la voglia di parlare sul serio, finivano per rendermi ancora più spaventata. 
Per un po' ho creduto che fossero utili per allenarmi a parlare con gli altri. Era come se facessi delle prove di dialogo. Sbagliavo anche in quel caso. Erano solo deleteri. Quando ho iniziato ad improvvisare ho trovato un altro modo per incanalare tutta quella fantasia. Finalmente la fantasia aveva trovato un modo per uscire allo scoperto. Non sono mai stata spaventata sul palco. Nemmeno al primo saggio: ero euforica, non vedevo l'ora e se c'era un po' di strizza era quella strizza buona che ti dà il coraggio di osare.
Mi sento libera, sul palco. Spontanea. Sicura di me. Non ho nessuna paura. Anche mentre improvviso sono migliore di come sono nella realtà. Forse dovrei smettere anche con l'improvvisazione.
Non so se c'è un motivo logico che possa spiegare tutto questo. Se ci penso, banalmente mi viene da dire che sul palco e quando scrivo, mi sento libera di essere ciò che realmente sono perché nessuno può sapere quanta realtà c'è e quanta fantasia. Perfino il titolo del blog lascia dei dubbi sulla veridicità di tutto ciò che qui è scritto. E' come se il giudizio altrui fosse troppo opprimente. Così penso di non essere abbastanza interessante o divertente o brava. Ma sul palco me ne frego e anche qui. Perché sul palco sono solo un personaggio creato sul momento e qui potrei essere chiunque e voi non mi state guardando negli occhi dando l'impressione, al mio cervello bacato, che vi aspettiate qualcosa da me.

Il prossimo libro che comprerò è un romanzo russo in cui un uomo scrive lettere non d'amore per la sua amata. Una di queste lettere fa così: "Mi hai assegnato due compiti. 1) non telefonarti 2) non vederti. Adesso sono un uomo impegnato". 
I compiti che io assegno a me stessa, che stanno anche bene in vista delle vacanze estive, sono: 1) non scrivere su questo blog 2) non improvvisare. 
Adesso sono una donna impegnata. Ad avere a che fare con la realtà.

domenica 12 luglio 2015

Lo zen e l'arte dell'intrepidezza

Ci sono cose che capitano nel momento esatto in cui ne hai bisogno. 
Come incontrare lo zen e in un weekend sentire che tanti sassi in cui sei inciampata si possono unire a costruire una strada.
Fare una strada è abbastanza semplice, quando capisci come sistemare i ciottoli. Percorrerla già è più difficile. Ma è solo questione di non avere paura.
Se un samurai ha paura della morte è morto! Non avere paura è indispensabile per riuscire a bloccare al volo la lama di una katana tra due palmi. Ma pur non essendo un samurai inizio a capire quanto l'assenza della paura sia necessaria per stare bene. La paura è solo nella mia mente. Mi blocca e mi impedisce di vivere qui ed ora. Stare nel momento: lo puoi fare solo se non hai paura e se non sei chiuso nella tua mente. Piccola mente limitata e limitante. Io sono molto di più della mia mente! Pensare al passato e al futuro è fantasy. Non serve a niente. Il rimpianto di quel viaggio a Tokyo tanto desiderato e la tristezza di un futuro prossimo in cui qualcuno lo farà senza di me non fa bene. Non mi fa vivere nel presente e mi fa perdere momenti preziosi. Quindi basta. Voglio solo essere qui, ora. Farmi una doccia senza pensare a nient'altro, solo a prendermi cura del mio corpo, a restare connessa a me stessa. Insaponarmi un braccio e sentire con i polpastrelli la mia pelle. Concentrarmi su quello che sto facendo, sull'acqua che mi bagna i capelli e corre lungo la schiena. Io sono questa. Sono più di ciò che penso. E non devo avere paura di niente. Che sia paura di un insetto, del vuoto, di essere traditi o del fallimento, sempre della stessa paura si tratta. E' superandola che puoi seguire il flusso e permettere che le cose accadano. 

Tempo fa, su una di quelle riviste che solitamente si leggono dal parrucchiere in attesa che la tinta faccia presa, lessi la risposta di un presunto esperto in relazioni amorose alla richiesta di consigli da parte di una fedele lettrice. Il tizio in questione diceva di avere una coppia di amici sposati e molto innamorati. Lei era terrorizzata dai clown e lui, per amor suo, faceva di tutto per farle evitare qualsiasi spiacevole incontro con la suddetta categoria di uomini con naso rosso e scarpe fuori misura. Questo per lui era l'amore. L'impegno di un devoto marito nell'evitare ogni possibile occasione di trauma per la moglie. La conclusione era che se un uomo non fa questo per te, allora non gli piaci abbastanza. Quindi, alla cara lettrice, veniva caldamente consigliato di lasciar perdere al più presto il suo non marito niente affatto premuroso.
Lo stesso Freud mi disse che a volte avere paura è un bene perché fa evitare sbagli o situazioni di pericolo. 
Oggi, grazie allo zen e ad un giapponese altro un metro e sessanta, fidanzato da vent'anni con un americano spiccicato al marito di Samantha in Vita da strega, ho capito quanto tutto ciò sia inveritiero.  La paura non è mai positiva. E ad essere pericoloso non è l'assenza della paura ma considerare amore una forma di dipendenza. Dipendere da qualcuno e farsi bloccare da paure che esistono solo nella propria mente, questo si che è mortale.

venerdì 10 luglio 2015

My fair schatz

Nel giorno in cui è nato Nikola Tesla me ne sto a casa mia nuda sul letto.
Fa caldo e ho passato quattro ore in areoporto in attesa di tornare.
E poi dicono che gli svizzeri sono precisi e puntuali.
Il mio umore era parecchio altalenante. Mi sono sentita felice, triste, disperata, cazzutissima a livelli stratocosmici, scocciata perché ero bloccata lì e determinata. La determinazione non è così usuale per me. Ma negli ultimi giorni ho: fatto nuoto a livello agonistico e corso tre chilometri (io che non faccio mai sport!), il bagno in un fiume portata dalla corrente, afferrato al volo una fastidiosa mosca come avrebbe fatto Obama, preso in mano un insetto nero per portarlo fuori di casa e poi un ragno con le zampe lunghissime che non stava mai fermo, portato uno zaino pesantissimo che mi fa ancora male la schiena, mangiato sushi per la prima volta e scommesso su un andata-ritorno di fine agosto.
Se ho fatto tutto questo in dieci giorni sento di avere buone probabilità. 
Mi immagino come una donna matura e fiera, che mangia composta, senza poggiare i gomiti sul tavolo e soprattutto che non prende quel cavolo di ketchup. 
Insomma, la zotica fioraia di G.B. Shaw finalmente trasformata in una dama di alta classe! Mi piace pensarmi così, come una che sa sempre come comportarsi, sa quello che vuole e che non sfigurerebbe nemmeno ad una cena di gala a casa degli Obama. Non volerebbe una mosca quella sera. 
Io credo di sapermi comportare. L'ho sempre pensato. Sono cresciuta in periferia, tra i cafoni veri. E sono sempre stata diversa da loro. Ho sempre parlato un ottimo italiano e avuto dei modi educati. Ho letto e studiato. Conosco le buone maniere. Per lo meno le conosco rispetto a un uomo che è stato cresciuto nel bosco da un branco di lupi. Ma rispetto ad un esponente della casa reale inglese mi rendo conto di sembrare un animale del bosco cresciuto da un branco di umani. 
Mi sono sempre sentita un po' fuori luogo, non adatta alla periferia ma nemmeno al centro della città. Sarebbe bello se bastassero un paio di biglie in bocca e un libro sulla testa per imparare ad essere una lady!
Il mio cervello è un po' combattuto. Combatte tra la voglia di sfoggiare all'ippodromo favolosi e scomodissimi abiti di ottima fattura e quella di continuare a vendere fiori totalmente sgraziata.
Ma oggi è il giorno in cui è nato Tesla. E lui è proprio l'uomo che avrei sempre voluto conoscere o essere. Uno scienziato e inventore geniale, misterioso, eccentrico, solitario e un tantino folle. Vorrei che fosse ancora vivo e che mi costruisse una bizzarra macchina per trasformare la volontà in concretezza o un raggio che distruggesse ogni sentimento di insicurezza come se fosse fatto di cristalli di neve. Però Tesla è morto da anni, a New York, e il governo americano ancora conserva come top secret alcuni dei suoi brevetti e dei suoi scritti. Io potrei andare a New York, recuperare questo materiale e vedere se Tesla ha effettivamente lasciato qualche indicazione per le invenzioni di cui ho bisogno. Il problema è che ho bisogno di quelle invenzioni per andare a New York a recuperare gli appunti di Tesla. Un bel paradosso. E una fatica inutile. Perché Tesla non ha mai avuto bisogno di invenzioni del genere e comunque io non sono Tesla né tantomeno una fioraria incolta e poco raffinata. Ancora non appartengo alla periferia nè al centro. Sono il desiderio di essere due cose forse inconciliabili. Il desiderio di non snaturarmi diventando ciò a cui anelo. Sono il desiderio che ora me ne vado a dormire perché ho bisogno di riposarmi, altrimento vaneggio. Poi domani mi sveglio, mi estirpo l'inerzia e compro delle biglie. Se me le metto in bocca invece di giocarci sulla sabbia non vi spaventate: diventare adulti significa solo usare il nostro bagaglio di bambini e adolescenti in un modo altro.

venerdì 19 giugno 2015

Il cuore dei gamberetti

Oggi sull'autobus una signora mi ha pestato il piede.
E' stato doloroso. 
Lei sembrava la mia custodia e sarà pesata almeno 100 chili. Ma anche fosse stata un fuscello di 28 chili appena non sarebbe stato comunque piacevole. E' stato doloroso e lei l'ha notato. Probabilmente dal mio gemito o dalla mia faccia contratta in una smorfia. O semplicemente per aver sentito del morbido sotto le sue scarpe. Ma invece di dire <Mi scusi> come immagino chiunque si sarebbe aspettato, perché è normale chiedere scusa, anche quando fai male a qualcuno senza volerlo, lei ha detto: <Eh! ma lei indossa dei sandali per andare sull'autobus!> !!!
Come se esistesse un decreto legislativo che regola l'uso delle calzature sui mezzi pubblici! Sandali: bollino rosso. Infradito: assolutamente vietati. Open toe tacco dodici e platform: fate immediatamente scendere dall'autobus quella scellerata e MULTATELAAAA!
Il mio piede se ne stava tranquillo sulla piattaforma instabile di un mezzo in movimento. Non dava fastidio a nessuno. Voleva solo fare il piede. Ed è stato schiacciato. Ok, è stato involontario, una casualità poco fortuita che nessuno poteva prevedere. Ma è accaduto e sarebbe stato carino sentirsi dire <Mi scusi, non volevo>. Avrei sorriso e detto a mia volta: <Non fa niente, capita> E tutto sarebbe stato come prima. Perché è vero, capita a chiunque. Tutti, prima o poi, possiamo ritrovarci ad essere un piede o l'altro. Ritrovarci nelle scarpe dell'altro. 
A sentire la signora, però, il mio piede non era abbastanza protetto. Non era abbastanza fortificato. Il mio piede era inadatto al bus. 

Pare che i gamberetti abbiano il cuore nella testa. Ecco, io credo di avere in cuore nei piedi. Del resto ho i piedi grandi. Mi hanno spezzato il cuore sul bus. Pestato e ammaccato. Ma quando sono tornata a casa ci ho pensato. Forse davvero se hai il cuore nei piedi devi andare in giro con le scarpe da ginnastica o con gli anfibi. Oppure devi imparare a reggere il peso. E io so che ce la posso fare a reggere qualsiasi peso! Ho i piedi forti. Altrimenti sull'autobus c'è il rischio di farsi male ad ogni fermata.

Ci ho pensato e ho capito che mai si dovrebbe mandare a quel paese chi si vuole bene. Non ci sono scuse. E' un'assurdità. Ora questo può sembrare che non c'entri molto con la storia dell'autobus, che davvero è accaduta così come l'ho raccontata, ma forse quell'episodio mi ha fatto pensare ad altro. Al poco tatto che a volte si riserva proprio a chi vogliamo più bene. E gli diciamo <Eh! ma tu non mi hai sostenuto> Invece di dire <Scusa, mi sono comportata in modo assurdo e ingiustificato. Perdonami, non ti farò mai più male>

Sono tornata a casa, ci ho pensato e ho comprato un biglietto aereo per una città in cui non lo so se c'è ancora qualcuno che mi aspetta. Non lo so se ho rovinato tutto. Però parto uguale. E cammino. In avanti, eh! mica come i gamberi! 

mercoledì 27 maggio 2015

Traiettorie e impatti

Ci sono circa dodicimila asteroidi che puntano verso la Terra. 
Ma fortunatamente solo cinquecento sono davvero pericolosi.
E qualcuno sta qui a controllarli tutto il tempo. Li osservano e tracciano il loro percorso. Fanno calcoli per capire se stanno diventando più pericolosi oppure se stanno cambiando rotta per andare altrove. C'è un sacco di altrove nel resto della galassia. E c'è un sacco di altrove anche qui sulla Terra. C'è un sacco di altrove in cui ognuno di noi vorrebbe stare proprio in questo momento. 

I controllori degli asteroidi sono anche detti meccanici celesti e nel tempo libero fanno yoga, così da riuscire a mantenere una certa calma nel caso dovessero scoprire che uno dei cinquecento grandi e minacciosi asteroidi che stanno osservando ha deciso di puntare ostinatamente verso il nostro pianeta. La bella notizia è che le probabilità che un asteroide grande e cattivo ci colpisca è quasi nulla. Al massimo ci può cadere in testa un asteroide grande quanto un melone che ci ammacca la macchina facendola così valere una fortuna. E' un fatto vero. E un'altra cosa vera è che esistono i cacciatori di asteroidi che nella vita li seguono, vedono dove sono caduti formando crateri e infine ne recuperano i pezzi. Poi li vendono! Ogni giorno asteroidi di tutte le fogge e dimensioni vengono piazzati su ebay a prezzi esagerati. Ci sono cinquecento asteroidi che minacciano la Terra e qualcuno spera che l'impatto avvenga davvero, possibilmente nei pressi di casa sua. 

Gli asteroidi minacciano costantemente la Terra ma la cosa che mi preoccupa di più in questo momento è che io non so terminare i discorsi. Chi se ne frega di quelle enormi masse solide che se ne stanno per i fatti loro ad orbitare ad anni luce da me. Io non so come finire un discorso in maniera accattivante! Questa è una cosa a cui vale la pena pensare! Basterebbe dire <Non vedo l'ora, ciao!> Invece dico <Pulisci il bagno!> nemmeno fossi una zia settantenne maniaca della pulizia. E lo dico con lo stesso sorriso carino e facendo ciao ciao con la manina. Non vorrei mai essere offensiva e in quel momento sono davvero molto felice, ma allora perché dico una cosa tanto stupida? <Pulisci il bagno!> !!! Non ho imparato niente da tutti i libri che ho letto e dai film che ho visto? Basta poco per avere un minimo di attrattiva. Basta non parlare delle pulizie del gabinetto prima di salutarsi. Il finale è quello che rimane più impresso. Vale per tutto: cinema, teatro, romanzi, storie d'amore, telefonate. E' così che si sono estinti i dinosauri? Uno ha detto all'altro <Pulisci il bagno!> invece di dire <Come sono felice di venire a trovarti> e un asteroide pensando <Dio che specie stupida, quasi quasi gli casco in testa> ne ha provocato l'estinzione? Che poi lo so che non c'è affatto bisogno di dire <Pulisci il bagno!> per trovare il bagno pulito. Probabilmente lo dico perché parlando di qualcosa di tangibile ho l'impressione che davvero sto per andare lì e che userò quel cavolo di bagno. Però. Se un asteroide fosse davvero in procinto di impattare sulla Terra non credo che prima manderebbe un messaggio in cui dice <Evacuate Manhattan!>. Sarebbe solo molto eccitato. L'evacuazione è un affare che lascerebbe ai controllori degli asteroidi, che sanno il fatto loro. Dovrei prendere lezioni di comunicazione da un asteroide. Il corso si chiamerebbe: "Dal primo contatto all'approfondimento: impara cosa non dire e lascia il segno"

Gli asteroidi non sono altro che pezzi di materia che non sono riusciti ad essere inglobati all'interno di qualche pianeta in formazione. Sono dei reietti solitari che cercano il loro posto nel mondo, soltanto che, a differenza nostra, sanno benissimo cosa non dire.

venerdì 8 maggio 2015

Non so niente di filosofia, ancor meno di mangimi usati in avicoltura

Sono una persona intelligente e insicura. 
Una cosa che non meraviglierebbe affatto Bertrand Russell. Un uomo che afferma che "la causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi" mi pare decisamente sicuro di sé. Non c'è insicurezza in una frase del genere. Non ha detto "la maggior parte degli stupidi e degli intelligenti" e nemmeno "la causa dei problemi potrebbe essere.." ha generalizzato con certezza, includendo nell'affermazione tutti gli stupidi e gli intelligenti. Mi piace pensare che un filosofo, matematico, scrittore e premio nobel sia una persona intelligente. Mi sento presa in giro se poi si mostra sicuro di sé contraddicendo la sua stessa asserzione. Magari lui si riteneva un'eccezione, un intelligente sicuro si sé. O forse era pieno di dubbi ma non poteva permettersi di darlo a vedere. Sia chiaro, a me uno così sta comunque simpatico. Ha inventato la metafora del pollo induttivista ed egli stesso appare come un'antinomia! 
In ogni caso, però, continuo a pensare che avrebbe dovuto aggiungere un "a volte" da qualche parte, in quella frase.  
E devo aggiungerlo anche io.

Sono una persona intelligente e a volte insicura. 
A volte è fondamentale. Gli avverbi sono spesso fondamentali. Perché cambiano tutto. E io non sono insicura sempre ma solo a volte. E quelle volte sono momenti di blackout della ragione che mi fanno sentire una vera stupida sicura del suo essere stupida. Per fortuna accade solo in certe occasioni. Nei momenti di sovraccarico emotivo. Quando torna, la luce è un faro che illumina la mia capacità di rovinare tutto. Una capacità che non ha niente di intelligente. 

Sento che ci sono molte altre cose da dire. Ma poco è chiaro e molto è confuso. Una confusione emotiva difficile da decifrare. Nel blackout l'irrazionalità la fa da padrone. Io ho quattro anni, ho paura e fa male. Penso di non poter sopportare un'altra volta di avere quei quattro anni. Ma quando torna la luce sono invece sicura di potercela fare. Perché sono forte e coraggiosa e non ho nulla da temere. Non sono un pollo. E nemmeno un filosofo che inventa una metafora su un pollo (che a pensarci fa proprio ridere. Un pollo che elabora teorie induttiviste e poi fa la fine di uno stupido pollo qualunque!) 
Sono piuttosto un Amleto che dice ad Orazio: "Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia" 

martedì 28 aprile 2015

Good vibration

Se apri un pianoforte a coda e ci guardi dentro ti rendi conto che i tasti neri e bianchi sono collegati a corde d'acciaio di diversa lunghezza e diametro. E se inizi a suonare, poi, ti accorgi che sono le corde corte quelle che vibrano più intensamente. Intensamente.
C'è chi vive la vita così intensamente che quando se ne va, non ancora raggiunti i cinquanta, sembra quasi non sia un peccato. Non sembra un peccato perché ha avuto tutto quello che poteva desiderare, dolore compreso. Ed era felice. E' stato figlio, fratello, marito, padre, avvocato appassionato e uomo senza macchia. E' stato amato molto e da molti. E ha dato molto amore in cambio. Ha fatto tutto presto. Ha vissuto intensamente, per l'appunto. Senza nemmeno dover andare nei boschi.

Poi ci sono io. Che evidentemente sono una corda lunga.
O per lo meno lo sono stata fino ad ora. Fino a quando l'accordatore ha capito che non funzionavo più come corda lunga e mi ha reciso per trasformarmi in una corda corta. Ed essere una corda corta, che vibra tanto intensamente, è faticoso e non è sempre facile per quella che da una vita era una corda lunga.
Gli ultimi mesi mi sono sembrati anni. Come se tutto fosse concentrato e fossero accadute un milione di cose. Mentre per anni non è successo niente. Per anni è stato tutto così uguale. Placido e immobile. Per anni il pianoforte non ha suonato. Niente Mozart, Bach, Chopin o le tagliatelle!
Sembrano accadute un milione di cose? E' così che ho detto? Beh, sbagliavo.
SONO accadute un milione di cose! Mi ritrovo su una rollercoaster emotiva che va veloce e non fa fermate. E tutto è intenso e impegnativo e complicato e ti fa venire le rughe. E mi sembrano una cosa bella, le rughe. Sono fisiologiche, le rughe. 
Ed è fisiologico morire con le rughe.

venerdì 3 aprile 2015

Il lieto fine della routine

La prima volta che ho guardato Colazione da Tiffany avevo tredici anni. 
Mia madre lo guardava così lo guardai anche io. Ricordo che pensai che Holly fosse una donna fortunata perché era bellissima e aveva proprio il gatto che avevo sempre desiderato. Ma lei non sembrava così felice, nonostante i vestiti e le feste e gli uomini e New York.
Poi a diciotto anni ebbi anche io la fortuna di avere per casa un bel micio rosso. E per i successivi tredici anni ho abitato con lui e con i miei genitori. Così ho capito. 
E' bello come alcuni film o libri ci facciano ridere o piangere sempre nello stesso identico punto. Li conosciamo alla perfezione e non possono sorprenderci, già sappiamo cosa sta per accadere, eppure ci fanno ridere e piangere ugualmente come se fosse la prima volta.
Ammetto di guardare Colazione da Tiffany ogni volta che sono triste. Mi fa stare meglio. E' quella bella sensazione che dà la routine. Non ci trovo niente di negativo nella routine in quanto tale. Se ci sono cose che ci rendono felici sono convinta che andrebbero ripetute. Per esempio, se penso a una storia d'amore che finisce non penso mai che sia colpa della routine, quanto piuttosto alla perdita di quella routine bella e che rendeva felici entrambi.  
Colazione da Tiffany è una di quelle certezze che ogni tanto vanno ricordate. E' fatto apposta per sperare. Sperare che se ne vadano le paturnie, che prima o poi qualcuno ti costringa a guardare la verità sul tuo conto e che tu ce la farai. E' una verità che non ti piace e sa di gatto bagnato. Ma te la prenderai in braccio, la stringerai a te e la guarderai. Così da vicino che non ti farà più paura. 
Peccato che il romanzo di Truman Capote finisca in tutt'altro modo. Certo il lieto fine è molto da film. E a me piacciono le storie che finiscono bene ma capisco anche il punto di vista di Capote. Forse quando scrivi un libro vuoi scrivere come sono andate le cose nella realtà, vuoi che sappia il più possibile come la vita e non vuoi dare nessuna falsa speranza.
La speranza però è una qualità così dannatamente umana.
La parte di Annie Hall che preferisco, per esempio, è quando Alvy scrive una commedia a lieto fine sulla sua storia con Annie. Non è una parte molto comica, non è decisamente la parte migliore del film, ma a me piace perché è vero che come esseri umani vogliamo far andar bene le cose. E io voglio far andar bene me stessa.

mercoledì 18 marzo 2015

Congiuntivo imperfetto

Se Ibsen fosse ancora vivo per leggere queste righe probabilmente penserebbe ad una rivisitazione in chiave contemporanea di Casa di bambola.

Vado dai miei a prendere la macchina. Le questioni pratiche sono sempre state il pressoché esclusivo argomento delle nostre trascurabili conversazioni. Telefonate su telefonate per mettersi d'accordo su chi va a prendere chi o cosa e quando e come. Telefonate a chiedere che hai fatto ieri o come stanno altre persone che non sono io. C'è stato un blackout durato trent'anni nella nostra relazione genitori-figlia. La luce poi è parzialmente tornata qualche giorno fa. Non in tutta la zona e non in tutte le stanze, ma è già qualcosa! 
Salgo su casa e li trovo in vena di parlare. Di come stanno. Mio padre mi dice che gli ho procurato un grande dolore. Anche mia madre confessa di stare male ma subito ci tiene a precisare che non mi vogliono mettere alcun tipo di pressione. Lo dice in modo sincero e le credo. Però sorrido pensando a quanto tutto ciò sia grottesco. Mio padre sta male per colpa mia. Dopo tutto lo stare male che ha causato lui, ora, non volendo, sembra arrivato il mio turno. La conversazione prosegue con una serie di casuali visioni apocalittiche sul mio spettrale ed imminente futuro. E' solo un altro modo per farmi pressioni. Loro però nemmeno se ne accorgono. Sono così abituati a farmi pressioni che hanno finito col convincersi di parlare sempre per il mio bene. Sempre come se poi il mio bene coincidesse col loro. 
Ma la migliore battuta dell'opera spetta a mia madre. Ha iniziato a raccontare di come è dovuta star dietro ai voli pindarici di mio padre e delle cose che ha dovuto lasciar stare per poi asserire che <Amare significa rinunciare>. L'ha pronunciata in un modo così triste che sembrava proprio voler dire: <Amare significa rinunciare alla felicità>. Dio santo, quanto deve essere stata dura per lei? 
Avrei voluto dirle che si sbaglia e che Amare è farsi da mangiare, ma non avrebbe capito. Non puoi vedere l'amore come qualcosa che ti arricchisce e ti nutre se hai appena detto che per te è privazione e impoverimento. Qualche mese fa ho sognato che ero bambina e stavo a casa con mia mamma. Lei aveva un aspetto orribile, sembrava così malata, e finiva per tagliarsi le vene perché mio padre se ne era andato. A quanto pare il fatto che sia rimasto non ha migliorato le cose. 

Insomma, i miei hanno detto le loro battute e io ho detto le mie. Ibsen le ha già scritte più di un secolo fa meglio di quanto io possa fare ora. 
Nora lascia Torvald e la sua vita da bambola. 
Sipario.

venerdì 13 marzo 2015

La ricetta della carbonara

Ognuno la fa un po' a modo suo la carbonara.
Io, per esempio, faccio soffriggere la cipolla con la pancetta, poi abbasso la fiamma e aggiungo un uovo. E giro. Giro senza farlo attaccare alla pentola. Giusto una manciata di secondi, perché l'uovo non deve essere cotto ma nemmeno crudo. Deve essere giusto. E quando è giusto te ne accorgi con l'esperienza. E con un pizzico di intuito. Può esistere un empirismo cartesiano? Per me si ma io non ne so davvero un bel niente. Chiederò ad un filosofo della scienza, non appena ne incontrerò uno.
Ovviamente la ricetta non è completa senza aggiungere sale, parmigiano e pepe nero quanto basta perché si possa effettivamente parlare di carbonara. 
La carbonara mi viene bene. Ne ho fatta un oceano di carbonara in questi anni. 

La frase che in questi giorni mi sento ripetere più spesso è: <Si, ma lui ti ha aiutato tanto>! E io questo non l'ho mai messo in dubbio.
Si, mi ha aiutato tanto e io ho solo fatto la carbonara. Anche Freud mi ha aiutato tanto e l'ho pagato caro. Anche Gutenberg mi ha aiutato tanto e io non gli ho portato mai nemmeno un fiore. Certo che mi ha aiutato tanto e certo che gli devo molto. E se c'è stato qualcosa da pagare l'ho sempre fatto volentieri. Però..

Vorrei che l'amore fosse solo farsi da mangiare.

mercoledì 4 marzo 2015

La banalità del bene

Non sono mai stata molto curiosa di conoscere che effetto facesse una sostanza stupefacente o di come funzionassero le cose.  
Sono sempre stata curiosa di sapere degli esseri umani, di come funzionano le persone.
Al liceo le biografie erano la mia parte preferita. Perché se uno era un genio ma non era stato felice, allora a che serviva tutta quella genialità? Sarai pure ricordato nei secoli ma hai vissuto una vita da schifo. Bella soddisfazione! Andatelo a chiedere a Van Gogh, Galois, Wallace.. Pensatori, poeti, condottieri, scrittori, matematici, filosofi, scienziati.. tutti uomini di gran fascino e di cui volevo conoscere la vita. Come avevano vissuto? 
A quattro anni non capivo niente dei meccanismi che regolano i rapporti tra le persone e ancora meno delle emozioni. Era tutto oscuro e ingarbugliato. A trentaquattro anni ci sono ancora molte cose che non ho capito. Credo di essermi data delle spiegazioni molto sommarie ed infondate. Ma quando sei una bambina e cerchi di capire cose che non puoi capire da sola alla tua età, allora ci sta che trovi delle soluzioni sommarie ed infondate. Tutto sommato è andata bene. Speravo che la vita di grandi uomini potesse essere utile per dissipare un certo groppo emotivo ma alla fine, per quanto fossero eccelsi, rimanevano esseri umani come gli altri, infelici e felici allo stesso modo. Non c'è una sorta di formula chimica o matematica che possa tenere insieme le persone, non c'è nulla. Non è come la timina che si lega immancabilmente all'adenina nella doppia elica. E lo fa sempre, senza stancarsi mai, da millenni. E sempre lo farà, perché una legge regola la loro unione. 
Ma tra le persone è tutto diverso. Non c'è legame idrogeno che tenga. Le persone si uniscono e sono felici, spesso sono profondamente felici e per molto tempo. Ma poi può capitare che il loro legame si faccia instabile, finendo per rompersi. Nessuno è in grado di trovare un motivo valido. E' così e basta. Le persone si legano e si separano nella stessa maniera, perché accade. Tutto molto banale. Volersi bene è banale. Non volersi più bene come un tempo è altrettanto banale. Capita ogni giorno a milioni di persone. L'amore è un sentimento sdrucciolo, direbbe Pessoa. 

martedì 24 febbraio 2015

Solo un passo di più

Capita che passi quattro giorni in una fredda città europea e fai un passo.
Solo un passo di più.
Magari nemmeno te ne accorgi finché sei lì ma poi torni a Roma e lo senti.
Che poi sarebbe stato un viaggio importante te lo potevi immaginare da come era iniziato.

Mio padre si offre di accompagnarmi all'aeroporto, arriva sotto casa mia con venti minuti di ritardo e vistosamente nervoso. Se la prende con me, come al solito, cercando di sfogarsi come può.
La macchina è minacciosamente in riserva, altro tempo da perdere e altra incazzatura da parte sua che nel panico non riesce a fare benzina al self. Così, imbestialita, esco dalla macchina, lo raggiungo, infilo di nuovo quelle stupide venti euro nell'erogatore e pigio il bottone numero due: super senza piombo. Forte della mia inaspettata figaggine (so fare benzina meglio di lui!!!) gli sbrocco. Non era mai successa una cosa del genere. Inizio ad urlare che si deve calmare altrimenti perdo quel fottuto aereo e che essere nervoso e prendersela con me non serve a niente, anzi peggiora le cose! E comunque siamo ancora ampiamente in orario quindi <Calmati, facciamo benzina e poi andiamo a Fiumicino!> Non mi faccio rovinare la partenza e tutto il viaggio da nessuno e non mi va di stare zitta a subire, una magnifica esperienza mi aspetta al di là delle Alpi. Ok, confesso di non aver proprio detto fottuto ma il modo in cui gli ho parlato sottendeva più di una parola forte.
Così è andata, sono arrivata in perfetto orario e sono partita.
E la cosa più inaspettata l'ho scoperta oggi. Mio padre mi ha scritto una mail in cui si scusava per il nervosismo dovuto alla paura che potessi perdere il volo. Mio padre mi ha scritto una mail in cui si scusava. Si scusava! Con me! Una cosa talmente incredibile che devo scriverla e riscriverla più volte.. Mio padre mi ha chiesto scusa per come mi ha trattato. Non era mai successo! E tutto perché gli ho risposto e gli ho parlato come una donna che parla ad un uomo e che non rimane lì a subire un nervosismo di cui non ha colpe. Semplice. Non importa se c'è un rapporto figlia-padre tra questa donna e questo uomo. Basta dire quello che si pensa.

A Zurigo ho passato quattro giorni. 
I migliori quattro giorni che potessi immaginare.
Sono stata bene e sono stata felice. Sono cose che non capitano tutti i giorni. Stare bene ed essere felice e per di più contemporaneamente. E fare un passo. Anche più di uno. Dire si o no senza non lo so. Sentirsi una donna realizzata e responsabilizzata e pensare di essere nel posto esatto in cui voglio e posso stare. Cose semplici e chiare. Niente di complicato. Tutto molto naturale.
Come camminare.