domenica 11 settembre 2016

A/R

Ho pianto in una Feltrinelli, alla stazione di Milano.
Aspettavo la mia coincidenza e mi sentivo a casa. La tipica sindrome da italiano all'estero. Mi mancano queste cose. Le Feltrinelli. Mi sento sempre a casa nelle librerie.
Sul treno una ragazzina adorabile che viaggia con sua madre non fa che parlare. Prima racconta storielle che dovrebbero essere di terrore e poi attacca con l'esposizione e l'analisi di tutto Le streghe di Roald Dahl. Non prende fiato per più di un'ora. E' una ragazzina davvero carina e intelligente, adorabile sul serio, e io amo Roald Dahl. La madre è esausta, finge di ascoltarla mentre cazzeggia al cellulare. E' una ragazzina molto carina e la apprezzo, ma se sua madre è esausta, figuriamoci io che mi sono svegliata alle cinque e volevo solo dormire un po'. 
Penso a mia madre che si lamentava del mio mutismo e non ha saputo la fortuna che ha avuto. Ero una benedizione non gradita. Anche se non le ho mai parlato di quanto fosse entusiasmante Roald Dahl. Almeno le ho lasciato il tempo di leggere I fratelli Karamazov. 
La bambina parla e ancora parla. Non riesco a dormire, men che meno leggere. 
Poi mi viene in mente il wifi, così metto su le cuffie e un full album. Aurora. Una voce romana mi calma. 
Sto andando a casa.
Ora ci sono tre posti che chiamo casa. Non si dovrebbe averne mai più di due. Ma se un miocardio, pur diviso in quattro parti, riesce a restare unito e a funzionare bene, allora posso farcela anche io. 
Sto tornando a casa. Solo per un giorno. La musica va insieme al treno. Mi giro a guardare se la bambina ancora parla. La trovo abbracciata alla mamma che le sta leggendo non so che libro. Non sono stata affatto una benedizione e non vorrei una figlia come me.

A Roma è come se fossi stata sempre qui. Le mie cose, le mie strade, i posti che conosco. Sono qui. I mie cari. C'è un alone di tristezza sopra a tutto questo. Che lo copre e lo schiaccia e lo soffoca. E sono felice di stare qui, me la vorrei godere questa giornata ma mi fa tristezza. E mi fa sentire in colpa. Per chi è rimasto senza di me. La tristezza di stare lontano, perdermi quello che ho qui. Quando sono lontana sono così impegnata da non accorgemene. Ma adesso ce l'ho davanti tutto quello che è rimasto e mi fa star male. Mi manca. Mi sto perdendo tutto questo, come mia madre si è persa Roald Dahl. Ma ha avuto i Fratelli Karamazov.
Sono più di mille pagine. Quale prezzo avrà pagato Dostoevskij?

venerdì 6 maggio 2016

Scriviamoci su

Quello che più mi sorprende, se penso a me quando avevo quattro anni, è quanto fossi intelligente.
Ero intelligente ed ero una bambina. Non bisognerebbe essere bambini intelligenti e adulti stupidi. Non che io sia stupida ma, pur comprendendo i meccanismi, le ragioni e le cause, non riesco a cambiare ciò che non mi piace. 
Ho studiato medicina perché ero davvero ipocondriaca e ho pensato che se avessi saputo tutto delle malattie, di come quando e perché accadono, allora non ne avrei avuto più paura. La conoscenza rende liberi, dice Einstein. No, la verità vi farà liberi, risponde Gesù. Ok, non litigate, dico io. Tanto sbagliate entrambi. La conoscenza e la verità non mi hanno fatto sentire meglio. Sapere cosa succede, il perché delle cose e delle azioni, non mi ha liberato. Sono un po' meno ipocondriaca, è vero. Si, sono migliorata in molte cose. Ma non sono ancora libera da quella sensazione dolorosa di quando a quattro anni mi sono sentita così sola che ho pensato che il mondo che conoscevo fino a quel momento si sarebbe disintegrato e niente sarebbe stato più lo stesso. Non ricordo esattamente cosa ho pensato in quel momento. Ero spaventata e angosciata e piangevo ma a nessuno importava, nessuno se ne curava. Forse ho pensato che non sarei sopravvissuta. Quel dolore avrebbe fatto collassare il mondo e ci avrebbe risucchiato. Poi qualcuno mi ha preso e portato via. E nemmeno se sono accorti che non c'ero più. Mi ha detto che sarebbe andato tutto bene e si sarebbero sistemate le cose. Ma io ero intelligente e sapevo che non era così, non poteva averne la certezza. Capii che era mia responsabilità sopravvivere al dolore e non far disintegrare il mondo. Spettava a me tenere insieme i pezzi. Sapevo che i due adulti che facevano parte del mio mondo non sarebbero stati capaci di farlo. Si erano dimostrati entrambi meno intelligenti di me. Erano troppo giovani per farcela senza il mio aiuto. Quindi dovevo sopravvivere e farli sopravvivere. In questi casi si trovano dei meccanismi di difesa che poi negli anni si rivelano uno schifo totale. Il problema allora diventa come eliminare questi meccanismi di difesa che ci incasinano, ci rendono stupidi e infelici e non liberi.
Ho iniziato a scrivere un diario a otto anni. La maestra delle elementari lo aveva dato come compito. Ho scritto diari su diari. Diari segretissimi e personali. Diari in cui annotavo solo quello che facevo, poche righe per ricordarmi che film avevo visto al cinema o come avevo passato le vacanze. Diari in cui scrivevo tantissimo, poi smettevo per pagine e pagine e magari a un certo punto riprendevo a scrivere. A volte scrivo qui perché ne sento il bisogno. Mi sento meglio quando scrivo. Mi sento meglio dopo aver scritto. Questo non è un meccanismo di difesa. I meccanismi di difesa fanno parte di come sono diventata e di quello che vorrei cambiare. Si attivano quando mi sento come a quattro anni, con quella sensazione insopportabile che deve andare via. Una disperazione senza causa apparente. E anche se so perché accade e anche se so la verità, non basta per sentirmi meglio e per superarlo. Poi succede questa cosa che forse è un meccanismo di difesa, non so. Succede che non mi piace la solitudine ma poi scelgo di stare sola, e non esco, rimango a casa, non telefono, mi comporto in modo da allontanare le persone. Sembra un controsenso. Sembra dire: è stata dura a quattro anni, so che non vuoi rivivere una cosa del genere ma ce la puoi fare. Se risuccede ce la farai.
Come si fa a liberarsi di qualcosa che ci ha fatto sopravvivere a quattro anni ma che ora non va bene? Credo comunque di aver fatto un buon lavoro con me stessa e di non essere male come adulta. Non so che senso abbia scrivere di questo adesso. Non so che senso abbia pensare che in fondo non sono male come adulta e chissà invece come sarei diventata se solo fossi stata una bambina meno intelligente. Tra pochi giorni è il mio compleanno. Dovrei essere orgogliosa dell'adulta che sono quanto sono orgogliosa della bambina che sono stata. Il mondo non si è disintegrato, la mia famiglia non è esplosa, tra una settimana compirò trentasei anni e non va così male. 

venerdì 1 aprile 2016

Non è più il tempo di Bob Dylan.

A Pasqua qui si regalano uova di cioccolata. 
Sono vuote e quando le apri dentro ci trovi una sorpresa. Non importa quanto siano grandi. Immancabilmente la sorpresa deluderà le nostre aspettative. 
Perché?
Perché la sorpresa non sarà mai grande quanto l'uovo che la contiene? Perché l'uovo nella sua interezza racchiude infinite possibilità ma una volta aperto palesa un'unica e limitata risposta? 
Perché le sorprese delle uova di Pasqua sono scarti industriali di plastiche scadenti? 
Tanto vale scegliere un uovo in cui sia buona la cioccolata.
In Svizzera regalano deliziosi coniglietti di cioccolata. Sono vuoti dentro. Nessuna sorpresa. Ma la cioccolata è buonissima.
Torno a Roma e sento parlare di buchi nei muri durante la riunione dei soci fondatori di un'associazione familiare. Allora ripenso ai conigli di Pasqua e al loro essere vuoti all'interno. 

Se Bob Dylan scrivesse una canzone su di me farebbe così:

Ragazza sei bella stanotte mentre non parli guardando avanti
Hai dei buchi dentro di te e forse sei vuota.
Dicono che Roma sia tutta bucata nelle sue fondamenta,
così può sopportare i terremoti.
Roma è ancora in piedi e sono passati secoli,
Non sei vuota ragazza, puoi solo sopportare i terremoti.

Tu non cadi mai ragazza, io lo so.
A volte piangi per cose che non fanno piangere nessuno.
E' che hai un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo, (*)
per questo piangi,
quando quelli che non hanno i buchi dicono soltanto 
che «la canzone è bella» o «il film vale la pena».
Le persone sanno parlare molto bene.
Tu le invidi mentre guardi chi ascolta i loro discorsi in prima persona.
Ma ricorda che non sei vuota ragazza, puoi solo sopportare i terremoti.

Spesso ti fai male, ragazza.
Non ti accorgi dello spigolo del tavolo,
o chi ti sta intorno ti colpisce, senza volerlo, in maniera tangibile.
Il tuo corpo si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ti fanno dei lividi, è doloroso.
Mi sono chiesto perché, ragazza,
e stanotte l'ho capito.
E' l'unico modo in cui possono ucciderti.
Non ti uccideranno percuotendo la tua anima.
Non sei vuota ragazza, puoi solo sopportare i terremoti.

Il tuo corpo ti vuole ricordare che sei mortale come tutti,
ma resterai in piedi 
e appenderai altri quadri per coprire i tuoi buchi.
Ho visto dentro di te stanotte, ragazza,
ho sollevato i quadri e guardato nei buchi
e ho visto montagne nel sole e ruscelli e cascate,
una giungla verde e colibrì che si nutrono da fiori bianchi e gialli e rossi. 
Lì dentro sei migliore dei quadri che appendi.
Non sei vuota ragazza, non sai parlare di questa natura aggrovigliata,
ma non sei vuota ragazza, puoi solo sopportare i terremoti.
Puoi solo sopportare i terremoti
Puoi solo sopportare i terremoti

(*) A Bob Dylan piace De André! (che poi trovo simbolicamente affascinante che la e di De André sia accentata come perché. Due cose che quasi nessuno sa scrivere bene)

Non è più il tempo di Bob Dylan. Non lo è più dagli anni settanta.
Ma stanotte non riuscivo a dormire e ho pensato alla sua voce e ad alcune canzoni. Non è una grande voce. Carina, certo. Non bella. Sono più che sicura che questa canzone gli riuscirebbe bene. Ci metterebbe un accordo di chitarra giusto, poi la sua magica voce da europeo del Minnesota farebbe il resto.

giovedì 7 gennaio 2016

Significati

C'è questa bambina di sette-otto anni sul treno, che legge alla madre degli indovinelli sciocchi.
«Sai perché le formiche sono sempre così tante?» «No» fa la mamma. La bambina continua: «Perché non hanno ancora inventato preservativi piccoli piccoli! L'hai capita?». «Si» dice la mamma e la bambina risponde «Io no. Che cos'è un preservativo?».
Io ora non mi sento come quella bambina e nemmeno come quella mamma.
Mi sento come la parola preservativo scritta in nero sulla pagina bianca di una rivista di enigmistica, finita, suo malgrado, all'interno di un discorso più grande di lei. La sua funzione primitiva di complemento oggetto, all'interno di un indovinello stupido, è stata rivoluzionata dalla curiosità di una bambina intenta a far passare il tempo di un viaggio Milano-Roma. Così è diventata soggetto di una nuova proposizione tutta per lei.
Il preservativo è per la signora una parola conosciuta, mentre per la piccola è un mistero, qualcosa che ignora. Ma il preservativo è sempre lui, con le sue caratteristiche e la sua indole. Non lo fa apposta ad essere sconosciuto o conosciuto. Lui è quell'oggetto lì e conoscerlo o meno è una questione di tempo e di amore.
Mi è stato chiesto «Chi sei tu?» e come un'adulta Alice interpellata da un enigmatico Brucaliffo non ho saputo bene cosa dire. Sono una donna di trentacinque anni. Fin qui ok. Elementare. Che vuole una famiglia, una casa da condividere, un lavoro che ama. Un essere basico. Che alla fine di una lettera vorrebbe scrivere "La tua -nome-" per poi ricevere indietro una lettera con scritto in calce "Il tuo -nome-". Probabilmente queste sono più cose che voglio e che solo in parte mi descrivono.
Si, ma allora, Who I am? Sono solo un Jean Valjean con un numero sul petto? Di certo non basta un nome per definirmi e come direbbe Giulietta, "quella che chiamiamo rosa, con un altro nome, profumerebbe ugualmente".
Da sempre l'uomo si pone questo interrogativo. Chi sono. E non è facile rispondere. Di solito è più facile dire cosa non si è. Io non sono una lumaca di mare, per esempio. Oppure potrei rispondere dicendo cosa sono in relazione a qualcun altro. Sono la figlia di F e I, sempre per fare un esempio.
Ma io in quanto essere umano tangibile, nella mia essenza e nelle mie fattezze, modi e pensieri.. chi sono io? Se fossi una musa sarei di ispirazione per il solo fatto di esistere in forma di pensiero. Un tempo ero una musa ed era bello esserlo. Facile e riposante. Sorridevo e il soffitto si apriva, tutto si illuminava e parole, idee e pensieri cadevano dal cielo come pioggia di ispirazione divina. Ogni poeta, però, ha la sua forma di ispirazione e un concetto del tutto personale di musa.
Sono una donna di trentacinque anni che non sa bene come rispondere alla domanda «Chi sei tu?» in una maniera semplice e univoca, perché quella è una domanda a cui non si può rispondere così banalmente. La risposta va costruita e nasce dall'unione di tanti «Io penso..» «Io voglio..» «A me piace..».
Tempo e amore per conoscere il significato di sè.